E’ legittimo il rifiuto di eseguire la prestazione lavorativa se l’ambiente di lavoro e’ insalubre



di Francesca Santangelo

E’ legittimo il rifiuto da parte del lavoratore di rendere la prestazione lavorativa in un ambiente di lavoro pericoloso. Ad affermarlo è la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 836/2016.

Ma quando tale rifiuto è legittimo? Andiamo per ordine.

La definizione di “luoghi di lavoro” è contenuta in modo chiaro nell’art. 62 del D. Lgs. N. 81/2008 (titolo II), secondo cui essi devono essere intesi come “i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva nonché ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro”.

Quanto descritto, insieme ai requisiti che i luoghi devono possedere e agli obblighi posti in capo al datore previsti nello stesso Titolo II dello stesso D. Lgs 81/2008, risponde all’esigenza di garantire ed attuare le norme costituzionali in tema di salute e di lavoro. Si fa riferimento all’art. 32 Cost. (che tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo sia come singolo che come collettività), all’art. 35 Cost. (che conferisce alla Repubblica il compito di tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni) ed all’art. 41 Cost. (secondo cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana). Riassumendo, la Costituzione mira a garantire al lavoratore il diritto a svolgere le proprie prestazioni lavorative in un ambiente salubre.

L’obbligo di garantire la salubrità dell’ambiente (quindi del “luogo”) che incombe sul datore di lavoro è ricavabile in modo esplicito dall’art. 2087 c.c. ove si afferma che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Secondo la giurisprudenza, l’obbligo di prevenzione ex art. 2087 c.c. impone all’imprenditore di adottare non solo le misure standard minime tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, ma anche le misure che in concreto richiede lo specifico ambiente di lavoro. 

Essendo il datore di lavoro titolare di una posizione di garanzia e, dunque, di un debito di sicurezza nei confronti del lavoratore, e benché “ad impossibilia nemo tenetur”, non basta porre in essere gli adempimenti “minimi”, ma bisogna fare “tutto il possibile” per tutelare l’incolumità fisica e la personalità morale dei lavoratori, pena la responsabilità in capo al datore di lavoro nell’ipotesi in cui il dipendente subisca un danno dalla violazione degli obblighi di sicurezza che incombono sul datore. 

Benché al fine di ottemperare all’obbligo di sicurezza nell’ambiente di lavoro non si richieda la presenza fisica costante del datore di lavoro (o dei soggetti ad esso equiparati), tuttavia è inderogabile la gestione oculata dei luoghi di lavoro “mediante l’aver posto in essere tutte le misure imposte normativamente (informazione, formazione, attrezzature idonee e presidi di sicurezza) nonché ogni altra misura idonea, per comune regola di prudenza e di diligenza, a garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro (Cass. civ., Sez. lav., n.1238/2005).

Se la tutela sui luoghi di lavoro non è garantita, in presenza di potenziali rischi, il lavoratore ha il diritto non solo di rifiutarsi ad eseguire la prestazione, ma anche quello contestuale ad essere retribuito (Cass., Sez. lav., n.6631/2015). Sarebbe infatti ingiusto far subire al dipendente le conseguenze sfavorevoli della condotta inadempiente del datore di lavoro.

Il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione costituisce, in termini giuridici, una c.d. eccezione di inadempimento, espressamente disciplinata dall’art. 1460 c.c., secondo cui nei contratti a prestazioni corrispettive, come è certamente il contratto di lavoro, “ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria…”.

L’obbligo di implementare, oltre che le misure standard imposte dalla legge, una serie di azioni finalizzate a proteggere la salute dei propri dipendenti (e di conseguenza di tutta la comunità) è rafforzato in momenti di particolare emergenza sanitaria, quale quello che stiamo vivendo con la diffusione del Covid-19. A tal uopo, infatti, il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre ed aggiornare il documento di valutazione dei rischi (DVR) ai sensi del D. Lgs. 81/2008, al fine di razionalizzare le misure standard di prevenzione che dovrebbero essere già attivate dallo stesso, e di adeguarsi al Protocollo emesso dal Governo per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus.

Dunque, in caso di epidemia dichiarata dalle autorità sanitarie nazionali ed internazionali, il datore di lavoro ha il dovere di mettere in atto misure tecniche, organizzative, procedurali, igienico-sanitarie, di informare, formare ed addestrare i lavoratori nonché di porre in essere la sorveglianza sanitaria, in attuazione del D. Lgs. 81/2008, con particolare riguardo agli artt. 271 e 272 dello stesso.

Il rischio da epidemia (come è quella del Covid-19) è un rischio professionale perché il lavoratore vi è esposto nel luogo di lavoro, in quanto è lì che deve svolgere la sua prestazione lavorativa e a contatto con altri soggetti (colleghi, pazienti, pubblico in generale).

Pertanto, essendo il lavoratore esposto a tale rischio, è ancor più fondato il rifiuto di eseguire la prestazione lavorativa (con contestuale diritto alla retribuzione) qualora il datore di lavoro non ottemperasse all’obbligo di garantire la sicurezza dell’ambiente lavorativo.

La Medicina Fisica e Riabilitativa è fra le specialità in prima linea nell’affrontare le conseguenze dell’infezione da coronavirus. I fisiatri sono impegnati nella gestione del paziente, per quanto attiene alle loro competenze, coadiuvati e supportati dai fisioterapisti al fine di ridurre non solo i sintomi respiratori ma anche le complicanze legate all’immobilità. In tal senso è spesso impossibile mantenere la distanza “di sicurezza”, motivo per cui il personale sanitario che si occupa della riabilitazione dei pazienti deve adottare tutte le precauzioni possibili al fine di ridurre al massimo il rischio di contagio. 

Negli ospedali in cui questi pazienti sono assistiti, fisiatra e fisioterapista devono attenersi alle indicazioni fornite dalla Direzione Sanitaria al fine di ottemperare al corretto svolgimento delle proprie funzioni.

La terapia riabilitativa è fondamentale anche per il recupero post acuzie dei pazienti COVID  e per tutta una serie di pazienti affetti da patologie gravi, che non possono sospendere il trattamento senza subirne gravi conseguenze.  

In tal senso i sanitari devono valutare, caso per caso, rischi e benefici della terapia, privilegiando sempre, in caso di dubbio, il contenimento del contagio. 

In tutti i casi in cui il fisiatra ed il fisioterapista siano nelle condizioni di operare mantenendo la distanza di sicurezza, ad esempio supervisionando i pazienti autonomi o espletando le funzioni di valutazione, consulenza ed educazione, tale approccio deve essere preferito al fine di assicurare la sicurezza propria, del paziente ed, in definitiva, della salute pubblica. 

Inoltre, è bene ricordare che la mancata adozione di adeguate misure di tutela della salute dei lavoratori, oltre che legittimare il rifiuto di eseguire la prestazione lavorativa e il diritto alla retribuzione, è fonte di responsabilità ex art.2087 c.c.

Più precisamente, il lavoratore che abbia subìto un danno a causa dell’insalubrità dell’ambiente di lavoro interessato, ha il diritto di agire contro il datore di lavoro ed ottenerne il risarcimento.Quanto all’onere probatorio, sul lavoratore che lamenti un danno alla salute, subìto a causa dell’attività lavorativa espletata, incombe l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come anche la nocività dell’ambiente di lavoro nonché il nesso di causalità tra entrambi. Sul datore di lavoro, invece, grava il successivo onere di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il suo verificarsi (Cass., Sez. lav., n. 1

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