L’inclusione scolastica dei bambini con disabilità: l’esperienza di un insegnante di sostegno



di Angela Mirella Capobianco

 

  Premetto che non sono una scrittrice infatti questo articolo, inizialmente stilato di getto con tutto l’entusiasmo del neofita, nasce nel ripercorrere le mie esperienze formative e lavorative per introdurre il lettore, anche quello privo di conoscenze didattiche, nel vivo della vita scolastica.L’articolo, pertanto, vuol essere un supporto semplice, ma ricco di contenuti, per trasmettere e condividere percorsi di insegnamento-apprendimento programmati, condotti e sperimentati da me in anni di lavoro quotidiano con alunni con bisogni educativi speciali e con alunni normodotati.

Insegnare è una esperienza straordinaria, a volte dura e difficile, ma ricca di gioie e gratificazioni. Nel mio lavoro ho sempre cercato di dare il massimo, di poter essere una maestra attenta, disponibile, ma anche autorevole e professionale. Da sempre ho personalizzato il mio stile di insegnamento in base agli alunni che mi trovavo di fronte e questo mio impegno si è trasformato gradualmente nella passione di organizzare il materiale da utilizzare e le attività da svolgere. Nel ripercorrere il mio “viaggio scolastico” non posso non riportare gli eventi  più significativi e che possono far riflettere a chi legge.

Mi sembra di vedere un film, invece si tratta di vita autentica, intrisa di ansie, emozioni e di soddisfazioni. Sono sicuramente una donna fortunata in tanti modi. La mia vita è stata un intrecciarsi di circostanze che mi hanno portato ad essere quella che sono. Sono partita da radici familiari di tipo didattico e pedagogico, in quanto figlia di insegnanti che con il loro esempio mi hanno offerto opportunità di crescita culturale e sociale, mi hanno insegnato il rispetto per la persona umana, la generosità, il valore delle cose e tutto ciò che di bello mi porto dentro. Sono stati loro a trasmettermi la passione per lo studio e per il sapere e ad infondermi lo spirito di sacrificio e la voglia di fare.

Il mio percorso formativo universitario è iniziato con la Laurea in Scienze dell’educazione.

Nel settembre 2001 decisi di iscrivermi nuovamente all’ Università per conseguire la seconda Laurea in Scienze della Formazione Primaria e la specializzazione per le attività di sostegno.

Contemporaneamente alla frequenza universitaria a novembre, a seguito delle idoneità conseguite con i concorsi ordinari, firmai il mio primo contratto di docenza a tempo determinato su posto comune nella scuola primaria. Ricordo che nel gruppo-classe vi erano due bellissime alunne che inizialmente erano “chiuse”, “mute” timorose; avevano uno sguardo a tratti trasparente e ricolmo di tesori preziosi e scintillanti e, in altri momenti, offuscato. Questa realtà mi fece comprendere quante infinite sono le risorse umane, quanto grande è la forza che la nostra fiducia può esercitare verso gli altri e quanto, al contrario è deleteria la sfiducia verso la crescita e la formazione degli alunni.

Successivamente vinsi, in qualità di pedagogista, il concorso presso l’ambito territoriale e fui assunta. La pratica professionale svolta in costante sinergia con altre figure si articolò in interventi di consulenza pedagogica, attività di progettazione, stesura di piani di lavoro educativi per bambini con bisogni educativi speciali. Da questa esperienza capii l’importanza di un lavoro di squadra. La sinergia tra le varie figure professionali consente di vedere la persona a 360 gradi; permette, come i sarti, di creare un progetto su misura, diverso ed unico, perché ogni bambino, ragazzo, adulto pur avendo la stessa patologia è un essere unico ed irripetibile.Tra lavoro, studio e attività di ricerca ad ottobre del 2003 conseguii la seconda laurea e la specializzazione per le attività di sostegno.Mi piace contrastare una percezione comune chesottovaluta la specializzazione ed è per questo che preferisco definirmi “insegnante di sostegno”. Eviterò, in questa sede, dal commentare che per molti il conseguimento del titolo è considerato come uno strumento di accesso alla professione, e non un’evoluzione, un avanzamento di carriera. Ci sono, infatti, molti docenti che si dedicano al sostegno nella fase iniziale della propria carriera e appena è loro possibile passano all’insegnamento curricolare; io invece ho compiuto il percorso contrario.

Conseguita la specialistica mi fu affidato l’alunno, con sindrome di Down,ipoteticamente chiamato Loren; era proprio quel bambino di cui avevo tanto sentito parlare all’interno dell’Università e visto in un video durante una sua seduta di musicoterapia. Entrai nell’aula e subito lo riconobbi… stava lì, proprio dinanzi a me. Timore, disagio furono le prime sensazioni che provai. Il mio primo incarico sul sostegno e proprio Loren doveva capitarmi? Che fare? Come aiutarlo? Imparai a conoscere i suoi atteggiamenti, a volte un suo sguardo, le sue reazioni oppositive esprimevano più di molte parole. Loren spesso con atteggiamenti egocentrici reclamava le sollecitudini da parte di tutti affermando la sua presenza ed esprimendo così il suo diritto a dire: “ci sono anch’io”con un codice comunicativo poco comprensibile per chi non lo conosceva.  Gesti, battimani, sorrisi, carezze sono state le prime comunicazioni non verbali, sintomatiche di un nuovo modo di comunicare. Proprio con i gesti, con il dialogo tonico e con le parole riuscii ad essere in sintonia con l’alunno che sin dai primi giorni di scuola accettò la mia presenza e talvolta la ricercò come figura rassicurante. Conclusa questa supplenza fui nominata in una quinta che tutti i supplenti rifiutavano in quanto gli alunni erano stati etichettati come indisciplinati, pigri, demotivati… e rispecchiavano la cosiddetta “sindrome della casa vuota” definita da Bronfenbrenner e inoltre in classe vi era un alunna con ritardo cognitivo grave. Entrata in classe mi presentai e immediatamente uno degli alunni “segnalati” mi soprannominò “Montebianco” dal mio cognome. Tutti risero … me compresa. Non dimenticherò mai il volto dell’alunno che per non essere stato rimproverato, mi guardò meravigliato. Questo fu da input per iniziare con il gruppo-classe una conversazione geografica. Nei miei percorsi didattici ho sempre amato le piccole e grandi sfide: personalmente non credo in un metodo di insegnamento immutabile nel tempo, ne ho avuto conferma in questa supplenza: esiste, invece, un metodo mutevole, pronto a modificarsi, adattabile alla classe in cui si opera. Non si deve mai parlare di un modello o metodo unico, ma di metodologia sempre aperta, dinamica, in continua evoluzione. Le esperienze didattico-educative hanno valore se si ha il coraggio di frantumarle giorno per giorno per produrne altre nuove ed originali. Ricordo che nella speciale quinta organizzai il quiz delle discipline. Il presentatore e i giudici erano gli alunni “etichettati” e la valletta l’alunna con ritardo cognitivo grave. Fu un vero successo. Una didattica così intesa è indubbiamente più impegnativa della cosiddetta didattica tradizionale, è una didattica che non consente routine, che non permette pressapochismi. Da questa supplenza capii che una scuola che insegna e che propone, anche inconsciamente un accumulo di nozioni e di dati, comprime e non libera le capacità originarie; anzi essa, specie negli alunni afflitti da psicologie deboli, ove le asimmetrie dell’espressione linguistica rendono inaccessibile il discorso e la comunicazione, può provocare uggia e ripulsa.

Conclusa questa supplenza su posto comune, la mia tenacia stava per essere premiata: avere l’incarico annuale come insegnante di sostegno. Dopo ricorsi e tribolazioni per una non corretta valutazione di titoli e servizio mi ritrovai presso il CSA provinciale, accompagnata da mio padre, saggio consigliere, per scegliere la sede. Il Dirigente Scolastico mi assegnò l’alunna ipoteticamente chiamata Stella con ritardo delle acquisizioni cognitive di linguaggio e disturbo della coordinazione dinamico-statica e delle prassie. Ricordo il primo giorno di scuola: davanti a me c’era una bimba con capelli lunghi e occhi nerissimi che con il capo chino mi guardava timidamente. Stella risvegliò in me emotività e dubbi di non saperla comprendere, risorse personali che se non fosse stata lei con me, non avrei mai potuto esternare. La necessità di capire e farsi capire da Stella, la quotidiana osservazione dei suoi gesti e l’ascolto dei suoi vocalizzi mi permise di scoprire, giorno dopo giorno, che l’alunna, anche se apparentemente sembrava non interagire, incamerava tutto ciò che le era proposto e soprattutto esternava la consapevolezza di essere accettata ed amata. La concreta registrazione dei miglioramenti di Stella e l’affermazione del Bruner: “qualunque cosa” può essere insegnata a “chiunque”a condizione che gli sia presentato in modi, forme e tempi commisurati alle sue effettive possibilità di apprendimento e di sviluppo portarono a progettare con l’équipe pedagogica interventi, percorsi non formali, ma il più possibile rispondenti alle esigenze dell’alunna, alle sue risorse residue, alle doti positive, agli interessi esistenti per potenziarli ed ottenere progressi anche in altri settori. Stella è stata un’alunna che ha dato affetto a chi glielo ha manifestato; ha dato un mondo sconosciuto da esplorare; ha costretto ad abbandonare i pregiudizi; ha dato la possibilità di inclusione di un “grave” o meglio di una alunna speciale nell’ Istituto; ha regalato nuovi modi di comunicare. Infatti, per incrementare le abilità comunicative di Stella, utilizzai anche la strategia di Comunicazione Aumentativa Alternativa.

Successivamente, sempre con incarico a T.D., mi ritrovai in “un’isola felice” tra colleghe anziane, ricche di esperienze, e simpatiche giovani colleghe aperte al confronto: una vera famiglia. Mi fu affidato un bambino delicato e dal visetto simpatico. Il primo giorno di scuola lo trovai abbracciato alla mamma, “chiuso a riccio”; mi dette un’occhiata veloce, di traverso, senza esporsi frontalmente, sembrava non voler dare la minima sensazione di esserci. Privilegiai attività adatte al suo sviluppo funzionale e metodi che nel rispetto dello stile cognitivo dell’alunno, fossero attenti, nei limiti del possibile, ai suoi processi metacognitivi, attraverso esercizi ricorsivi centrati sul fare-riflettere-fare tali da stimolare, in modo naturale, l’alunno ad “imparare ad imparare”. Infatti, grazie al metodo di insegnamento basato sulla metacognizione l’alunno raggiunse apprendimenti significativi.

Riporto una frase di Don Milani che racchiude un po’ il senso di ciò che appresi in quell’anno scolastico: “per comunicare con i ragazzi dobbiamo imparare a piegare bene le ginocchia. Dobbiamo piegarci per stare faccia a faccia con loro. Dobbiamo cercare di entrare nel loro mondo”.

Nello stesso anno lavorai anche presso l’Università di Firenze come docente a contratto del laboratorio di pedagogia interculturale e didattica dell’integrazione presso la facoltà di Scienze della Formazione Primaria. Una scelta di coraggio non da poco quella di affidare un corso così importante ad una ragazza così giovane. È stata l’esperienza lavorativa più intensa della mia vita. Con gli studenti ricercai costantemente un dialogo alternativo al classico modus operandi docente-discente. Lo stupore dei miei studenti si leggeva nei loro volti: per alcuni ero più adulta di soli pochi anni, per altri una coetanea, per altri ancora più giovane. Come affermano Platone ed Aristotele lo stupore è ciò che muove ogni impresa conoscitiva e se gli insegnanti di tutti gli ordini di scuola sapessero evocare questo atteggiamento nei loro allievi darebbero un senso vero alla loro professione. Ho cercato sempre di suscitare lo stupore con le cose più disparate e sempre con il desiderio di coinvolgere gli alunni di ogni età. Finalmente nel 2007 il sogno diventa realtà: l’immissione in ruolo su posto di sostegno.

Il D.S. mi affidò l’alunno dal nome ipotetico Nik, affetto da disturbo dello Spettro Autistico. Pensai tra me: sarà veramente un duro anno di prova.

Durante gli anni di insegnamento non avevo mai seguito alunni con questa sindrome e undici anni fa l’attenzione nei confrontidell’autismo non era come oggi. Spinta dal desiderio di essere informata e di conoscere a fondo il mondo dell’autismo rispolverai le mie cognizioni e nel contempo ricercai nuove soluzioni. Ripresi il libro “la fortezza vuota” di Bruno Bettelheim nonostante, sin da quando ero ancora studentessa, le sue teorie mi avevano lasciata perplessa in quanto una madre non può essere classificata “seno gelido” o “mamma frigorifero” e non si può pretendere di operare la “parentectomia”, sradicando il figlio dai genitori. Sfogliai il libro di Zappella dal titolo “non vedo, non sento, non parlo”, autore della terapia basata sullo Holding, ma adesso superata dallo stesso Zappella con l’AERC. In ogni testo consultato, le descrizioni del soggetto autistico sono dettagliate sia sull’aspetto fisico, sia sul comportamento anomalo manifestato, ma pensavo: come riuscirò a comunicare con Nik? Come Nik comunicherà con me? Mi ritornò alla mente il primo assioma della comunicazione umana: “è impossibile non comunicare”. Ogni comportamento è comunicazione. Già nei primi stadi di sviluppo del bambino inizia la relazione comunicativa. Anche la patologia grave ci conferma questo dato, infatti, condizioni molto gravi di assenza di linguaggio, come ad esempio nell’anartria presente in alcuni pazienti post-traumatici o come esito di paralisi cerebrale infantile o in alcune forme di autismo, il linguaggio verbale può non essere presente, ma si comunica sempre e comunque qualcosa. Anche nelle condizioni di “normalità” o di alunni provenienti da nazioni diverse è impossibile non comunicare: una qualsiasi interazione, volontaria o involontaria che sia, il fatto stesso di trovarsi in due o più persone, implica naturalmente la comunicazione. Partendo da questi presupposti pensai che nel mio lavoro con Nik dovevo avere come obiettivo principale e irrinunciabile quello di consentire all’alunno non parlante, di comunicare. Sicuramente, nei cinque anni trascorsi con l’alunno, ho avuto il coraggio a sperimentare, ricordo quando proposi al Neuropsichiatra di poter partecipare ad un progetto per acquistare il comunicatore multimediale cioè un dispositivo che associa immagini ad un sintetizzatore vocale. Il dottore acconsentì. Il palmare fu acquistato e Nik iniziò ad esprimere i propri pensieri attraverso le innumerevoli foto, disegni, immagini caricate da me e da mio marito sul dispositivo. Posso affermare, infatti, che la personalizzazione del processo di insegnamento-apprendimento, la continuità didattica, gli interventi didattico-educativi mirati, l’uso di strategie e metodologie, le tecnologie informatiche, il clima di classe solidale, l’intesa perfetta senza competitività, né prevaricazione di ruoli dei docenti componenti l’équipe pedagogica, la professionalità del D.S., la cooperazione con la famiglia e con la ASL attivati in sinergia hanno permesso a Nik di raggiungere con ottimi risultati tutte le competenze previste a conclusione del ciclo di scuola primaria.

Come si evince, da anni ormai mi occupo di inclusione e tanti sono i ricordi belli legati alla mia attività di docente, anzi sono tutti belli, faccio fatica a ricordarne di spiacevoli forse perché in un modo o nell’altro hanno avuto tutti una rilevanza per la mia crescita professionale. Ho avuto modo di conoscere problematiche educative e didattiche quanto mai varie per la unicità che ogni alunno, sia normodotato sia con bisogni educativi speciali possiede. Scrivere di tutti i miei alunni non è facile perché riassumere in poche righe quello che accade nel vorticoso spazio di anni scolastici è quasi impossibile.

Sono veramente tanti i miei ex alunni e li ricordo tutti con affetto e, quando riuscivo ad entrare nel loro mondo, ciascuno mi trasmetteva qualcosa di indescrivibile.

Ho operato a contatto con alunni affetti da paralisi cerebrali infantili; con grave ritardo dello sviluppo psicomotorio caratterizzato da: disturbo della comunicazione, distorsione dell’interazione sociale, presenza di comportamenti atipici in soggetto portatore di disturbo pervasivo dello sviluppo; con ritardo cognitivo grave, con ritardo cognitivo medio; per non parlare dei tanti alunni DSA e DOP e di tanti altri bambini e ragazzi speciali incontrati, grazie a mio marito volontario attivo dell’Unitalsi.

Non sono le loro diagnosi ma i loro nomi o nomignoli affettuosi dati nella quotidianità: Stella, Cicciobello, Genietto, Mascotte, Principessa …. a caratterizzarli come Persone, non confrontabili ad altri nelle potenzialità o difficoltà.Mi piace intendere la scuola come
spazio dell’incontro fra identità plurali. L’identità di cui l’alunno è portatore è originale ed irripetibile. Questa identità è la storia di ognuno: una storia che è in continuo divenire e che si costruisce attraverso la trama delle relazioni. Quando noi docenti entriamo in relazione con l’alunno, non incontriamo un caso, un problema, uno stereotipo incontriamo una Persona.L’esperienza da me vissuta, in questi anni, mi porta a dire che l’ opera educativa per gli alunni  con bisogni educativi speciali, non si può dire mai compiuta per la natura stessa che essi rivestono; infatti c’è sempre in loro qualcosa da riscoprire e far emergere perché “ognuno brilla di luce propria”.Ho sempre cercato di garantire loro il successo formativo e il pieno soddisfacimento del diritto all’educazione e all’istruzione “per tutti e per ciascuno” nel nome dell’equità. Una scuola che include è una scuola che pensa e che progetta considerando tutti.Nell’ottica di un discorso globale relativo alla qualità dell’istruzione, la mia attenzione non può non soffermarsi sulla scelta di metodi e strategie efficaci ed efficienti a ridurre le “distanze” ed usare le “differenze” come punto di partenza. Con queste premesse e, in connessione con quanto argomentato l’obiettivo prioritario che sostiene il mio modo di insegnare è quello di permettere ad ogni alunno, nel rispetto delle individualità di ciascuno, e secondo una prospettiva bio-psico-sociale (ICF International Classification of Functioning) di “sviluppare un proprio progetto di vita futura”.

Per realizzare ciò bisogna vivere la scuola come un intreccio di emozioni e condivisioni: questo è ciò che mi fa amare il mio lavoro e me lo fa scegliere ogni giorno. Credo nella scuola di tutti e per tutti. Credo in una didattica basata sulle otto competenze chiave europee e sulle competenze di cittadinanza italiane, ed in linea con i programmi ministeriali. Credo nel lavoro di ricerca-azione e nelle sperimentazioni attuate nelle classi. Credo nella didattica metacognitiva, nella realizzazione dei lapbook, dei compiti di realtà, nei progetti, nell’ uso razionale delle tecnologie digitali, a cui non riesco a rinunciare. Credo che niente capiti totalmente a caso, ogni evento, ogni alunno è una potenziale occasione di arricchimento, un’occasione che ci viene data per condividere con altri esperienze, in quanto uniche e speciali. A tutti prima o poi capita di vivere delle coincidenze che modificano almeno in parte il corso dell’esistenza: sono quelli che Jung definiva “eventi sincronistici”, fenomeni in grado di aprirci nuove prospettive.

Ripercorrendo questi anni, non posso fare a meno di ringraziare a quanti mi hanno fatto da “ala” come quando un corridore, per raggiungere il traguardo, trova energia e supporto dal “tifo” che le persone gli offrono lungo il percorso. Ho avuto il piacere di operare con colleghi, genitori, medici, dirigenti scolastici che hanno creduto in me e nelle mie capacità affidandomi alunni speciali e incarichi di responsabilità. Il mio ultimo, ma sempre presente, pensiero va a tutti i miei alunni con la piena consapevolezza che l’intensità di certe emozioni vissute insieme resteranno uniche nel mio cuore.

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6 comments
  1. La passione…. magnifico. Gente così straordinaria esiste ancora in Italia… professionisti/e veri/e, competenti, preziosi, pieni di talento. Il mondo delle cure ha bisogno di gente preparata e motivata e… con tanto amore dentro, come Lei ! Grazie
    Alberto Cester

  2. Ho avuto il piacere di collaborare con te sul nostro meraviglioso alunno, ricordo l’illuminarsi dei tuoi occhi ad ogni sua conquista, ricordi quando lesse la lettera A? Era al di fuori del suo corredo fonetico e sentire quel suono ci ha rese euforiche per settimane. Se mi fosse capitato di essere madre di un bambino-risorsa-ricchezza come quelli che tu hai condotto per mano mi augurerei che avesse incontrato una persona come te; “persona” perché il tuo modo di essere e di operare è saldamente ancorato ad un’elica del tuo DNA. Grazie per avermi consentito di essere tua collega, Angela, e ti auguro di conseguire tanti meravigliosi traguardi di umanità.

  3. Ottimo lavoro! Auguro a tutti i nostri bimbi di oggi e adulti di domani, speciali o normodotati, di essere accompagnati nella crescita da insegnanti meravigliose/i come te!

  4. Vorrei tanto averti nella mia scuola dell’ infanzia per osservati mentre lavori con una bimba meravigliosa di sei anni.

  5. Grazie Professoressa. Questa è l’italia che spesso non vedo in molti operatori sanitari e che mi piace.. Mi ha sorpreso l’iter formativo importante unito all’entusiaso nell’affrontare i singoli casi in quanto spesso chi ha grandi curricula poi non sa o non vuole affrontare la realtà spesso frutto di molte fatiche ed insuccessi. Meglio gestire una relazione con tanti applausi alla fine che passare tante ore con casi clinici difficili che peró sono il cuore del nostro lavoro . Ha ricordato che spesso la vita reale sembra un film ed ha ragione e poi ha citato un prete Santo che adoro. Le parole dell’amico Cester mi hanno colpito in quanto vengono da un collega prestigioso e che testimoniano il parere ottimo che ebbi di Lui quando ci trovammo in tavoli ministeriali in ruoli apparentemente di contrapposizione ma che invece si sono subito trasformati in una grande collaborazione per il bene della diversità che è sempre una ricchezza. Grazie di nuovo

  6. Sento il desidero grande di rivolgere un doveroso ringraziamento a tutti, nessuno escluso, per le tante attestazioni di stima ricevute su questo sito web, sui social e privatamente.
    La mia gratitudine va al Dottore Uliano che mi ha dato l’opportunità di stilare l’articolo.
    Angela Mirella Capobianco

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